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Chiamami con il mio nome! Finalmente vinta la battaglia delle donne afghane.

Le afgane avranno finalmente il loro nome sulle carte d’identità nazionali.

Dopo più di tre anni, la battaglia delle afghane è stata vinta. Si tratta di un importante passo verso la regolamentazione della presenza pubblica, in un Paese dove la figura femminile è nascosta, annientata.

L’inizio dell’annientamento dell’identità della donna.

Con l’avvento al potere dei talebani, nel 1996, l’Afghanistan è ripiombato in una condizione che ricorda gli anni bui del medioevo. Le afghane hanno perso la dignità di essere umani. Sono state private di tutti i diritti civili e di ogni forma di libertà.

Sono state precluse loro anche semplici attività come frequentare le scuole e le università. Il maschio è diventato la loro unica fonte di sostentamento.

Oggi, la nuova costituzione afghana sancisce la parità tra uomo e donna di fronte alla legge ma, nei fatti, le che partecipano alla vita pubblica devono affrontare quotidiane molestie e minacce.

Anche solo pronunciare il nome di una donna in pubblico è considerato sconveniente.

Neppure la morte ridona loro dignità: sulla lapide, le non hanno diritto al nome, è consentito solo quello di parenti maschi.

La nuova legge.

Il comitato legale del gabinetto afghano – con a capo Sarwar Danish – ha confermato che è stata approvata una proposta di modifica della legge sul censimento per includere il nome della madre sulla carta d’identità dei figli. L’emendamento dovrà essere approvato dal Parlamento, con la firma del Presidente.

Stando a quanto scritto sulla carta, sul certificato di nascita dei figli sarà indicato il nome della madre e non sarà più possibile definirle con appellativi come “la mia capra” “il mio pollo”.

Ristampare il nome sul documento d’identità significherà ridare alla madre determinate autorità come ottenere documenti per i suoi figli, iscriverli a scuola e viaggiare senza la presenza di un uomo.

Afgane che mostrano con orgoglio le loro dita macchiate di inchiostro dopo aver votato alle elezioni a Lash Kar Gah, nella provincia di Hermeland, in Afganistan.

Le cadute in battaglia.

Mena Mangal – donna, giornalista e attivista per i diritti umani – è stata assassinata lo scorso anno.  Più volte ha avuto l’opportunità di scappare dal suo Paese, ma ha sempre rifiutato. Diceva di voler lottare per tutte le imprigionate dal sopruso e che non avrebbe avuto senso lottare scappando; “non sono molte le donne, vittime di violenza, che possono fuggire”.

La sua morte però non è riuscita a fermare la battaglia delle afghane.

Le attiviste locali si sono battute fino all’ultimo respiro affinché si abolissero la norma e le usanze discriminatorie.

Where is my name?

Dalla provincia di Herat, queste guerriere hanno lanciato un hashtag, #whereismyname? che ha fatto immediatamente il giro del mondo; sono migliaia le adesioni!

Si tratta di un modo per catturare l’attenzione ed ottenere supporto.

Questa vittoria simbolica è un piccolo ma grande passo per tutti coloro che lottano per i propri diritti.

Le realtà rurali però, continuano a essere conservatrici e sono in molti ad opporsi alle novità introdotte dalla nuova normativa. Qui le sono ancora considerate come una proprietà.

Non è una questione religiosa!

A tal proposito, Laleh Osmany – una delle esponenti principali del movimento #whereismyname? – dichiara che la maggior parte dei limiti imposti alle nella società afghana non ha alcun fondamento nella religione. Nell’Islam non c’è nulla che limiti l’identità delle donne.

Privare una persona della propria dignità, renderla “oggetto di qualcun altro” è un crimine e come tale dovrebbe essere perseguito in ogni angolo del mondo.

Questo piccolo cambiamento consentirà alle donne afghane di riappropriarsi della propria dignità come esseri umani e della loro autorità.

È, però, solo un piccolo passo, c’è ancora molta strada da fare e tutti, nessuno escluso, possiamo essere gli artefici del cambiamento.

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